A levare, tra materia e memoria

Protagonisti della ricerca di Marilina Marchica (Agrigento, 1984) sono il segno e la traccia mediante la riduzione e la sottrazione di molteplici e contrastanti pensieri, stati d’animo e sentimenti che l’artista trasferisce sulla superficie delle sue opere. Olio, iuta, smalto, carta, ferro, carboncino, paste di marmo, come elemento dominante o contaminati tra loro, sono oggetto della continua scoperta di un’artista curiosa e sensibile, interessata alle diverse sfumature della realtà, ai paesaggi e alle città che giorno dopo giorno accolgono eventi e individui, segni di un tempo in continuo divenire.
La sua formazione, dopo gli studi al Liceo Artistico di Agrigento, si compie presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna, dove consegue la Laurea in Pittura con una tesi sulle Architetture urbane, relatore Adriano Baccilieri. Proprio tale clima culturale suggerisce un confronto tra alcune delle sue opere, in particolare la serie “City”, e la ricerca di uno dei maggiori esponenti dell’arte italiana del XX secolo, Giorgio Morandi che a Bologna è nato e ha operato per tutta la vita. “City” è una serie di vedute urbane che si caratterizza per un tratto sintetico, riconoscibile grazie a una peculiare cifra stilistica in cui si fondono stasi e memoria. All’orizzonte si stagliano le case con i loro muri dalle superfici che si increspano sulla materia raccontando un vissuto comune. Le tonalità cromatiche più frequenti sono il bianco e il grigio con la reiterazione, sempre contenuta, del rosso capace di accendere immagini poetiche e rarefatte che accolgono un senso, intimo e profondo, di appartenenza ai luoghi.
La linea dell’orizzonte ritorna nella serie “Landscapes”, paesaggi entropici in equilibrio tra ordine e disordine, caos e cosmo. Vi compare un’efficace prassi minimalista, volta a cogliere la dimensione nascosta di tali paesaggi in cui il tempo e i luoghi si ricongiungono nello spazio della memoria, campo d’azione prediletto dell’artista.
Interessante il modus operandi sviluppato nel corso di un soggiorno in Spagna, durante il quale l’artista con la sua macchina fotografica esplora diversi luoghi e in particolare, tra strade e palazzi, attira la sua attenzione Plaza de San Felipe Neri, sita nel centro storico di Barcellona, dove alcuni bambini si rincorrono sullo sfondo della chiesa gotica dalle superfici scheggiate e forate dal bombardamento del 30 gennaio 1938. Il muro, diaframma tra ciò che è custodito all’interno e ciò che sta fuori, diviene di fondamentale importanza per l’indagine dell’artista che cristallizzando crolli e demolizioni li libera dall’oblio conferendo loro una dimensione universale, metafora della vita e delle sue stagioni.
La fragilità, intesa come caducità della vita, è un’imprescindibile chiave di lettura per il lavoro dell’artista come si evince dal progetto “Terra fragile”, legato all’interesse degli esordi per le architetture urbane con i loro ruderi. Il progetto si focalizza su alcuni temi ricorrenti nella ricerca della Marchica come il rapporto “uomo-natura”, “memoria-tempo”, e “terra-materia”. Epifanico l’episodio relativo al crollo di un costone argilloso a ridosso di un palazzo nel centro di Agrigento che richiama l’artista invitandola, in uno scenario destabilizzante, a raccogliere “pezzi di case”, mattoni, piastrelle, piatti. Quei frammenti di una vita vissuta, oltre quel muro e oltre quella frana, esercitano un grande fascino sull’artista, interessata a collezionarli, catalogarli, attraversarli, e la invitano a riflettere sulla memoria, spesso oggetto di un cortocircuito che può fungere da scintilla per un nuovo inizio.
“L’unica radice che ho mi fa male”, scrive la poetessa Alda Merini, ed è proprio a questa radice, intesa come origine e inizio, che si rivolge Marilina Marchica, ribelle e a tratti ermetica, con l’omonima serie. “Radice” è il titolo di un nucleo di dipinti, di rothkiana memoria, in cui l’astrazione della realtà è animata da qualcosa di viscerale che allude non soltanto alla nascita ma anche alla rigenerazione e diviene tutt’uno con l’esistenza.
Il progetto “TAG/Impronta”, condotto con Roberto Pecoraro, porta alle estreme conseguenze l’indagine sulla materia e sulle sue qualità espressive. La città funge da richiamo per l’artista che torna a focalizzarsi sull’architettura urbana, sulle strade e sui muri puntellati ed esposti al degrado, osservati e ricercati in quanto espressione della memoria. La Marchica realizza una serie di calchi in silicone da cui ricava un’impronta delle architetture originali ma a cui conferisce un nuovo significato. Ne deriva una sorta di “calco semantico”: l’impronta, in un continuo confronto tra passato e presente, accoglie la “memoria del divenire”.
Le più recenti opere realizzate su lastre di ferro, infine, sono icone intime e misteriose che scaturiscono dalla scarnificazione di segni e contenuti e si ricollegano all’indagine sulla memoria come frontiera, attraverso una ricerca particolarmente originale volta a scandagliare il significato più profondo della relazione tra uomo e natura nel tempo. Confrontandosi con la realtà oggettiva, estraniandosene o avvicinandosi ad essa a tal punto da perdere l’insieme, l’artista resta fedele a un procedimento a levare che tende a rimuovere ciò che è superfluo per mostrare e condividere il senso che emerge dagli strappi, dalle lacerazioni e dagli scarti, in una parola l’essenza.
Le opere della Marchica, riconducibili a serie che hanno una data di inizio ma sono in costante aggiornamento, esprimono pertanto un universo sommerso, capace di emergere per mostrarci, attraverso la forma, l’essenza più profonda, la nostra e quella dell’artista. Tra intimismo e sperimentazione andando oltre e guardando altrove Marilina Marchica rappresenta quelle molteplici, variabili e invisibili “costellazioni di significato” che fanno parte del quotidiano e connotano il contemporaneo come scenario mutevole e incerto.


Cristina Costanzo