L’atmosfera di se stessi


Il paradigma percettivo da cui prendiamo le mosse
non è quello in cui vi è un soggetto
che si riferisce a un soggetto.
Il fatto percettivo basilare per la nostra indagine
è anteriore a ogni scissione soggetto/oggetto.
G. Böhme

Siccome un bel tacere non fu mai scritto
un bello scritto non fu mai tacere.
A. Zanzotto


1. Una certa autonomia, insieme alla scoperta di una differente “posizione percettiva” da parte del pittore, avvenuta, per convenzione, durante il diciannovesimo secolo, permetterà all’arte di mutare nelle forme simboliche e interrogarsi maggiormente sul suo valore di “superficie” dell’esistenza che rappresenta verosimilmente il fenomeno, approdando lentamente alle caratteristiche di strumento di indagine (e sapiente capriccio dell’artista, aggiungerei) in grado di oltrepassare qualsiasi limite imposto dal senso, più di quanto non lo fosse stato in passato.
Tale strumento, ovviamente, sfiderà il fenomeno stesso: il quale, in coscienza di sé, dunque imitato, rimarrà sempre immagine, ma adesso sarà strettamente affiancato all’emozione che esso suscita e ai concetti intrisi di innumerevoli, e probabilmente indicibili, prospettive.
L’opera, insomma, almeno per gli occhi che oggi hanno il privilegio di gustare le ultime intuizioni, è qualcosa di poco diverso da ciò che rappresenta, spesso nemmeno riconoscibile in base a quello che desirerebbe narrare; e tuttavia, senza affermare o negare precise sue indicazioni, apre pagine della mente su cui affiorano affascinanti terminologie con la freschezza di una sorpresa.
Ed ecco che finalmente, stanco dello spazio che lo circonda, anche per rispondere a una necessaria evasione dettata dalla tendenza onirica, lo sguardo del pittore, che si lascia attraversare dal fenomeno con cui ha lungamente lottato, corregge le cornici del mondo e ne dipinge altre: i suoi pennelli muovono verso geometrie innovative e si intingono su una tavolozza i cui colori hanno regole segrete; le sue pulsioni catturano le categorie e le trasformano.
Tutto questo, che comunque risente di una condizione fisica che ci riguarda (altrimenti non si sarebbe minimamente tentato il gioco), e della quale non saremo mai slegati finché percepiamo, se ne sta “appeso” in una configurazione che definiamo, in modo corretto, atmosfera.

2. Atmosfera è affine a respirare. La parola disegna una precisa immagine: un soffio di vapore che rincorre se stesso all’interno di un globo, mescolandosi. Posta in questo modo, chiaramente non può sussistere divisione tra atmosfera e chi la esperisce; soprattutto perché il nostro esperire è atmosferico. Entrambe le condizioni si intrecciano in un dialogo che è “interno” ed “esterno” alle affezioni dell'anima: le uniche “lanterne” con la facoltà di illuminare gli angoli bui in cui vaghiamo. Questa è la differente “posizione percettiva” che coadiuva gli interrogativi sorti, giustamente, accanto quelle cornici del mondo che vuole essere sempre decodificato.


3. Marilina Marchica passa gli anni di studio tra l’Accademia di Bologna e le viuzze della città vecchia di Barcellona. In questi due luoghi inizia a maturare interesse, poi amore, nei confronti delle architetture urbane: la sua costante figurativa in pittura.
Se ancora a Bologna ella opera per una figura fissa, anche “pesante” nella sua presenza, cioè veramente architettonica, pure nelle solidità, in Spagna, e con il ritorno ad Agrigento, i soggetti e punti di fuga, precedentemente schematici, si perdono con la fluidità dei paesaggi immaginari; quasi, a un tratto, l’osservazione della Marchica venga spostata su “finestre” più elevate, e la sua pupilla riceva una velatura (o il suo contrario, fa lo stesso) che concentra l’attenzione a elementi più sentimentali che sensoriali.
A Barcellona, tra le calle della ciudad vieja, imbracciando la reflex, immersa nel gotico, e da questo suggerita, si avvia il suo orizzonte pittorico. Le foto, spesso ossessive, scattate per catalogare ogni curiosità che, dentro ella si sarebbero trasformate più tardi in collage di pennellate, diventano fonte utile per estrapolare dei ritagli astratti i quali, in un ordine determinato dalla stessa Marchica, si agganciano l’un l’altro congelando “pezzi” di significato in cui la forma è l’eco di se stessa: ora componendosi, ora modificandosi.

4. Vicoli, piazze e palazzi. La natura, prima manipolata, poi riempita di logica e dunque resa città, luogo in cui la vita dall’uomo gli appartiene perché illusoriamente da se stesso prodotta, è ispirazione di ogni suo bozzetto. Finché l’impatto con un muro (un impatto prettamente psichico, simile a una sorta di improvvisa verità manifestata) non accompagnerà la sua ricerca in un porto dalle acque calme, nel quale sondare i fondali e trovare il giusto collante per quei frammenti sovrapposti unicamente dalla voglia di foggiare imprendibili visioni.
Ed è in plaza San Felipe Neri, infatti, che ciò giunge. Lo scenario: un’assolata giornata; schiamazzi di bambini che giocano; la vita che passa come sempre; Marilina al centro della piazza. Sul muro che la racchiudeva, la Marchica si accorse dei fori causati dal bombardamento del 1938. Ella intravide, tra foro e foro, e dal sussurrare del presente, il quale è silenzioso nella vastità della sua leggiadria, la memoria impressa dal tempo; e dalla violenza.
Ma è con il ritorno ad Agrigento che le conoscenze iberiche si contestualizzano: la città dei Templi e dei crolli, dei resti architettonici antichi e contemporanei, indirizzeranno Marilina a una pittura meno strutturata e più “fragile”, come l'arenaria da cui Girgenti respira, e il cemento della speculazione che la soffoca.

5. La tecnica è mista: paste di marmo, carte, collage, iuta, oli e smalti; le cromie tenui che non sbavano dalle scale di grigi, metaforicamente analoghe al territorio; e sul palco i paesaggi urbani, taciturni, che fioriscono dai materiali raccolti dall’autrice nel corso del tempo. Nell’esecuzione tutto è proiettato all’indefinito, anche se questo diventa ostacolo murario, i cui rilievi assorbono la memoria custodendola in profonde ferite, testimonianza rugosa del passato, o panorama appena percettibile, attraversato da gelidi venti e privo di sentieri in grado di guidarci verso un’ipotetica uscita. Il silenzio delle atmosfere grigiastre si accorda ai tratti scarni che la strutturano, in cui la materia che accoglie e si decompone è sempre protagonista. Nulla è eccessivamente informe, poiché tutto è una nostalgia del disegno più elementare: quella traccia tenera della matita sulla carta, che magicamente riesce a costruire significati e a incantare nell’atmosfera di se stessi.

Dario Orphée La Mendola